Mi pareva ben dilettevole andar cambiando nazioni e costumi cambiando i cavalli da posta, e trovare della novità, ch’è il premio d’un viaggiatore, ad ogni passo. Ma mi noiava eziandio il non saper mai dove fosse l’Italia, e dove prenderne giusta idea. Roma pretende dar legge a tutti, il suo nome le basta. Firenze ha la Crusca, e ha avuti i Medici; ma Bologna è la madre degli studi, ed ha l’Istituta, che val ben più d’ogni accademia; ma Torino, Padova e Pisa hanno università; ma Venezia ha dell’ingegno, de’ librai, e de’ torchi più d’ogni altra; ma Napoli e Genova han de’ danari, Milano delle buone cucine e l’Ambrosiana, Verona l’anfiteatro e Maffei, e tutte alcun titolo, alcuna ragione e diritto, per incoraggire i suoi letterati e dar pascolo alla lor vanità. Ognuna alza il suo tribunale, ha il suo parlamento letterario e comanda nel suo distretto quanto Londra all’Inghilterra, Parigi alla Francia, in materia d’opinioni, sovranamente. A dire il vero, io penso che, se in fatti l’Italia tutta avesse un centro, un punto d’unione, sarebbe più ricca d’assai nell’arti, nelle lettere e forse nelle scienze, che non qualunque altra nazione. Ma questo disgregamento, che produce poi la discordia, la gelosia, l’opposizione d’un paese coll’altro, fa parere, a chi non esamina, che gl’italiani siano più poveri che non sono, e più ridicoli. Perché di ciò nasce che i più piccoli pedantucci, i sonettisti, fanno figura e autorità nelle piccole loro letterarie combriccole, onde è piena l’Italia di tai letterati plebei, di veri insetti della letteratura.
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