Addio.
LETTERA QUARTA
Or che ho soddisfatto intorno al mio paese, con più libertà sono al vostro. Sentite come pensava un inglese mio amico, e vedete l’idea che produce questa furia di poetare degl’italiani, ne’ nostri gravi cervelli:
— A me — diceva — sembra questo un gran tiro di politica italiana, un gran bene agli stati. Primieramente il commercio se ne alimenta, e il denaro circola per man dei librai, degl’incisori, di cento persone. Almeno questa manifattura non può decadere, perché non è facile che venga la moda di Francia anche in questo, e si faccian venire dei servi e delle Raccolte da Parigi e da Lione. Lasciate che prenda piede e vi si possa mettere un dazio, sarà dei più vantaggiosi ai prìncipi italiani. Già vi sono de’ fondachi e de’ negozianti di poesia. Passando a Bologna ne conobbi uno, che vendeva i sonetti a prezzo proporzionato all’altezza, larghezza e forza di stile che si volevano, e di queste stroffe ne avea molte pezze nel suo magazzino, col viglietto, al di fuori, del prezzo. I librai più accorti tengono al lor servigio questi poeti, che lor fanno una dedica, una prefazione in versi per ornamento del libro, e so che si degnano d’essere lor pensionari anche de’ titolati, che in Italia val quanto cavalieri. La sola carta per Raccolte nella sola Venezia esaurisce molte fabbriche, ed in un anno migliaia di risme e di balle vi s’impiegano. Che importa, che la carta si venda a scrivere o a stampare, serva alle storie, alla morale, alla legge, o ai versi? Purché si venda e si compri, tutto è lo stesso; una edizione d’autor classico e necessario resta in bottega, le Raccolte vanno e corrono.
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