Ma lasciamo il cavaliere ne’ suoi misteri. Io vi dico, senza mistero, che il più ridicolo abuso di questo non trovasi in nissun paese fuori d’Italia. E il peggio è, che non v’ha rimedio fuorché nella stanchezza, nel disuso, i quali vengono dopo un lunghissimo tempo, in una nazione la quale, per sé, ha della costanza e non ha occasioni, eccitativi, impulsi gagliardi, per quella misera sua costituzione di tante diverse provincie, ciascuna delle quali fa casa da sé, forma un popolo, un governo e leggi e costumi suoi propri, benché spesse volte l’una non abbia dall’altra che un fosso, o una pietra, per segno di confine. Il qual male non è già egli un vizio, una colpa, degl’italiani; ma produce assai colpe e vizi, e rende, dirò così, eterno ogni abuso e pregiudizio. Una metropoli generale, colla sua mole e possanza, darebbe moto ai cambiamenti di tutta la nazione, e, messe in odio e in ridicolo, per esempio, le Raccolte da lei, da per tutto cadrebbono. Così pure cadrebbe quell’altra pedanteria, di cui tanto abbiamo parlato insieme, d’ingiuriarsi i letterati così rabbiosamente e villanamente, ch’è proprio uno scandalo e un disonore della nazione da cui l’Europa ha presa la prima cultura e urbanità dopo i tempi barbarici. Gli odi e le guerre letterarie durano tra voi altri in sempiterno, o, se una finisce, tosto ne nasce un’altra. Nel poco tempo del mio ultimo giro in ogni parte d’Italia ho vedute battaglie terribili. Ove le «lammie» e la «magia», ove «l’impiego del danaro», ove «la somma dei beni e dei mali» di Maupertuis; e la questione dei Cenomani, e il dittico quiriniano, ecc. ecc. ecc. per tacer della grazia, del probabile, dell’attrizione, ecc. ecc. ecc.
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