Or credereste, amico carissimo, che questa bagattella ha avuta in me tanta forza che prima d’uscire d’Italia ho tentato di venirne in chiaro? Voi conoscete l’inglese e la sua curiosità. Se vogliamo vedere sul fatto il Vesuvio per fino alle bocche del vivo fuoco, e trescare colla cascata di Terni e co’ bagni bollenti di Nerone, non vi stupirete che un tal prodigio in genere di costume e di umana filosofia m’abbia allettato quanto quelli della naturale. Ma la conversazione che ho avuta con questi due uomini, di professione e di stato tanto diversi al mio modo d’intendere quanto un lappone o un patagone(42), merita bene una lettera a parte. Addio.
LETTERA SETTIMA
Dopo averci riconosciuti tra noi, il conte ed io, dal tempo che ci eravamo veduti a Londra qualche volta in casa del vostro ambasciatore straordinario, e spiegato da me senza preamboli il motivo che mi avea mosso a fargli visita, entrammo a parlare liberamente, e come se fossimo nella libertà del caffè de Withe(43), o della vecchia e nuova cotteria(44) di Londra.
— Poiché voi dovete a quest’ora conoscere il mio paese, — diss’egli — non dovreste maravigliarvi del metodo, che ho preso, di vivere e di trattare le lettere e i letterati. Voi sapete, che ho sempre amati gli uomini veramente dotti e procurato di profittar della loro compagnia, eppur qui in Bologna mi vedete quasi solitario e per una gran parte del giorno chiuso nel mio gabinetto, quantunque io abbia scelta questa città, perché vi sono assai più che altrove umani e discreti gli uomini di lettere, e alcuno capace eziandio di vera amicizia.
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