Si esige da loro ciò che dalla natura fu lor negato, della pazienza, della fissazione, del giudizio, della riflessione; si crede far molto, allora che lor si danno i princìpi della sfera, quasi l’idee astratte fossero proprie a quell’età e potessero ordinarsi ed imprimersi in que’ cervelli, che la natura non ha ancor finito di lavorare. Il tedio, poi, che fa languir quelle povere anime e intisichire quei corpi, in tanta uniformità e serietà di non piacevoli occupazioni, nulla vien computato; dal qual poi deriva, spesse volte, un abborrimento, per tutta la loro vita, da ogni fatica ed applicazione, oltre al perdersi affatto tutto ciò che sono obbligati contro lor genio d’imparare materialmente. Converrebbesi convertire ogni loro studio in giuochi, in movimenti, in esperimenti, se fosse possibile, e noi tutto vogliamo in serietà ed immobilità. Dovrebbero aver compagni amabili e allegre conversazioni, e si obbligano a vivere con Tullio, con Ovidio, con Prisciano, a conversar con la carta, coi libri, co’ maestri e professori d’università, che, al sol vederli con que’ gran collari e toghe e parrucche, ma sopra tutto con quel sopracciglio e con quella gravità pedantesca, metton tristezza; in fine, al primo goder della vita la più vivace, son costretti, i meschini, a parlar una lingua morta, a studiar morti autori, a vivere con pedagoghi mortuali.
Ma come sono io venuto a parlar dell’educazione, partendomi sì da lontano? Un po’ d’inglese entusiasmo m’ha rapito, è vero, ma non fuor di proposito.
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Tullio Ovidio Prisciano
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