Or che ne avvenne? Dovette ricorrere il Davanzati alle forme di dire più disusate(85), più rimote, più rozze, del tempo antico, quando ogni lingua a principio è più scarsa, più ritenuta, e però più robusta in apparenza, senza parlar delle rustiche e popolari e d’ogni maniera più strane locuzioni ch’egli, per riuscire all’impegno bizzarro, ammucchiò. Ma riuscì, come sapete, assai male, perché, a fare intendere la sua versione, fu necessario porvi (oltre ad un dizionario delle voci meno intese, edizione cominiana) un comentario di spiegazioni(86), che più non si sarebbe fatto al testo latino di Tacito, benché oscuro ei sia. Qual follia non è questa di farsi oscuro per esser breve, e di tormentare i lettori viventi, per amore dell’antichità? E non crediate ch’io sprezzi il Davanzati, chè anzi, siccome Dante, perché lo stimo, lo critico. Ho letto con gran piacere la storia sua dello scisma d’Inghilterra(87), e, lasciando da parte le sue opinioni su quell’affare e la sua poca critica, ch’era vizio del tempo e della sua educazione, protestovi, quanto allo stile, d’averlo trovato superiore a molti de’ vostri storici di gran nome. Non è egli, come son quasi tutti, declamatore, oratore, diffuso, languido e gonfio e periodico, come gli altri, ma vibrato, conciso, corretto, elegante, vivace espressivo, come esser deve uno storico. Ma, quanto alla sua traduzione di Tacito, mi mette nausea quel suo scrivere fiorentino, anzi plebeo di Firenze, con tanti idiotismi e modi triviali e presi dalla bottega e dalla campagna, secondo il bisogno che avea di prendere i più semplici e più ristretti per mantenere l’impegno della brevità. Ma all’impegno suo principale mancò, di storico e di traduttore, non riguardando alla nazione per cui traduceva, la qual non è in obbligo di sapere il linguaggio degli artigiani e bifolchi toscani, né all’autor che traduce, autor sì nobile e grave insieme, e, insieme, ad ogni colta persona, non che letterata, sommamente utile e necessario.
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