Nota 3. Bembo, Della Volgar Lingua, lib. 1. «Né stette guari che la lingua lasciò in gran parte la prima dura corteccia del pedal suo. Laonde Dante, e nella Vita Nuova, e nel Convito, e nelle canzoni, e nella Commedia sua, molto si vede mutato e differente da quelli primieri che io dico; e, tra queste sue composizioni, più si vede lontano da loro in quelle alle quali egli pose mano più attempato, che nelle altre; il che, argomento è che, secondo il mutamento della lingua, si mutava egli, affine di poter piacere alle genti di quella stagione nella quale esso scrivea. Furono, pochi anni appresso, il Boccaccio e il Petrarca, i quali, trovando medesimamente il parlare della patria loro altrettanto o più ancora cangiato da quello che trovò Dante, cangiarono in parte altresì i loro componimenti. Ora vi dico che, siccome al Petrarca e al Boccaccio non sarebbe stato dicevole che eglino si fossero dati allo scrivere nella lingua di quegli antichi, lasciando la loro, qualunque essi l’avessero e potuto e saputo fare; così né più né meno pare che a noi si disconvenga, lasciando questa del nostro secolo, il metterci a comporre in quella del loro; che si potrebbe dire, messer Carlo, che noi scriver volessimo a’ morti, più che a’ vivi. Le bocche acconcie a parlare ha la natura date agli uomini affinché ciò sia de’ loro animi, che veder compiutamente in altro specchio non possono, segno e dimostramento, e questo parlare di una maniera si sente in Italia, e in Lamagna si vede essere di un’altra, e così da questi diverso negli altri luoghi.
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