Le regole, in poesia e in oratoria, servono come i cannocchiali, cioè non servono fuor che a coloro che han buona vista. Se alcuno può dare utilmente tai regole, egli è l’uom di talento felice, e nato a quell’arte che insegna. Ora un tal uomo vuol piuttosto creare che scalpellare, che discutere, che pedanteggiare, vuole ed anzi è rapito a volare ove l’estro lo chiama e l’ardor lo trasporta; e per questo avviene che un buon poeta non fa dei precetti, ma dei versi, e chi fa dei precetti fa dei cattivi versi, come son pronto a provare col fatto, se ne foste curioso. Raffaello e Tiziano, Farinello e Buranello, Moliere e Metastasio, Bossuet e Marco Tullio non han fatto precetti, ma, volendo pur talun d’essi insegnar l’arte loro, quanto si può, han lasciato piuttosto esempi che precetti, come si vede nell’Oratore e nei Chiari Oratori di Cicerone, come negli Esami di Cornelio, come nella Vita di Lemene, e in altri tali. Con tutto ciò, siamo obbligati agli autori più antichi delle poetiche e delle rettoriche, se volete, come a quelli che scavano la terra con gran fatica, affin di scoprir l’oro delle miniere che altri poi prende e lavora. Ma le nuove poetiche o rettoriche, ricopiate e ricucite e riscaldate, non han neppure questo pregio.
Andrei certo in infinito su questo argomento. Ma mi piace assai non somigliar nemmeno in questo ai presenti maestri, de’ quali parliamo. La brevità e la varietà piace a voi pure, con la libertà sopra tutto, che quei crudeli odiano tanto e distruggono barbaramente con le lor leggi, con la schiavitù, con la superstizione, «la qual nasce», dice un mio amico, «dall’ignoranza, e la riproduce». Povera Italia, quando sarai tu sgombra di questi nuovi barbari, quando verrà per te il Giulio II della letteratura(114)?.
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