Il signor marchese Maffei con ragione osserva che i nostri epici italiani, non cedendo nulla a’ greci e a’ latini nell’invenzione, nell’acume, ne’ caratteri, ne’ colori ed ornamenti, se non sono ancora arrivati a dare un poema epico qual’è nel suo genere Virgilio, non può ascriversi certamente ciò che al difetto dello strumento.
La rima in un componimento piccolo può sostenersi ad adequare l’idea; ma in un poema lungo non è possibile ritrovar tante voci simili nelle desinenze, quante sono le combinazioni delle idee e le variazioni che posson farsi per esprimer tante cose diverse, e, se non v’ha riuscito né l’Ariosto, né il Tasso, e prima di loro Dante, l’uno e l’altro de’ quali, secondo l’espressione dello stesso Torquato, calano sovente le brache, non so chi possa riuscirvi. Il Tasso l’ha tentato, e, per sostenersi troppo, s’accusa d’uniformità nelle cadenze e nelle cesure de’ versi; il che certamente non gli accade nelle sei giornate del Mondo creato, dove l’eloquenza poetica è spaziosa e varia, e l’erudisce delle più belle idee della filosofia e della fisica nota a’ tempi di Torquato. Leggendo de’ versi così maestosi, si ha soggetto di lagnarsi che il Tasso non conoscesse della storia naturale quello che s’è scoperto nel secolo seguente».
Nota 2. Io v’ho parlato del Tasso e de’ suoi falli, ma molto ancora potrei dirvi di que’ dell’Ariosto, ed anche dello stil suo, benché preferito in Italia da molti a quel del Tasso, per la naturalezza, facilità ed eleganza, sopra la quale ho assai consultati i letterati italiani, perché un inglese difficilmente può giudicarne.
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