devole, divien, presso la moltitudine, insulsa e fredda, per quel pravo gusto che abbiamo agli equivoci e alle immodeste allusioni. Al qual proposito mi dicea, non è molto, trovandomi a Dresda, quel chiaro ingegno e felice del signor Bianconi, che fa tanto onore all’Italia per l’eccellenza del suo sapere e del suo gusto non meno che per la bellezza dell’animo e delle maniere: «E che importa a me che tutte le parole siano bagnate in Arno, se non dicono che cose fredde e meschine? Egli m’è paruto» (aveva tra le mani un libro nuovo di capitoli e simili cose uscito in Italia di fresco) «un poeta bernesco spirituale, genere di poesia nuova nel nostro parnaso italiano». Vi so dire ch’egli mi confermò nell’eresia con questo, e più ancora col farmi legger seco certo poema bernesco, che, quanto mi sembra mirabile per la facile vena e corrente di un’armonica poesia, tanto è mirabile, e ancora più, per l’idea dell’autore, che crede il suo tempo bene speso in un argomento il più puerile e triviale, in critiche e riflessioni le più comuni e volgari, in versi e rime, che certamente sono, se altre il furon mai, nugaeque canorae, e che non sente rimorso di fare due grossi tomi tutti pieni della stessissima cantilena(124). Posso io credere quel che udii, che due altri tomi sì fatti voglia dar fuori ben presto(125)? Oh tempi, oh costumi italiani, e solamente italiani!
Tanto è vero, amico mio, che l’arte dei versi ora è divina, ora è nauseosa, secondo ch’ella si esercita; e che in Italia purtroppo chi è per mestieri poeta è forse il più vile tra gli artigiani, perché giugne esso a portar danno e noia a’ suoi simili che qualche utilità pur traggono dal manuale, dal ciabattino, e sin dai più vili di questi.
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