Che strana idea non è quella di rinunziare alla bella universal lingua italiana, per parlarne o scriverne una contadinesca di qualche valle degli Appenn
ini o dell’Arno? Perché, se voi esaminate l’intrinseco pregio di tal poesia, troverete che nei riboboli, negl’idiotismi, ne’ proverbi di qualche terra e montagna sanese o pistoiese o fiorentina, consiste, e si pretende piacere ai veneziani, ai torinesi, ai napoletani o lombardi che nulla intendono. Ma almeno fossero lette là dove s’intendono! Pensate. I toscani si ridono de’ lombardi, che pretendono aver quel sapore e quella grazia loro nativa scrivendo e parlando, poiché i toscani han quel pregiudizio, rispetto alle provincie d’Italia, che han le nazioni confinanti tra loro, ma col pregiudizio hanno ancor forti ragioni in questo. Dimandate per curiosità, come ho fatto io ai toscani, se né pur conoscono le poesie del Vettori, del Gozzi e de’ loro compagni, e, se le conoscono, dimandate il conto che essi ne fanno. Questa profanazione della lingua toscana mi par più grave per colpa de’ poeti o berneschi o burchielleschi o fidenziani, o che so io. E lo stesso direi di molti altri generi della poesia vostra, ma basti in generale il conoscere l’intemperanza del poetare in Italia, per esser convinto del male. Sopra la quale pensando, io stesso ho fatta qualche riflessione, che pregovi di esaminare. Gl’italiani, mi sembra, hanno una lingua sì armonica, sì lucente, sì ricca, che niente lor costa far versi, ed è difficile il farli assolutamente cattivi.
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