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      Non potendo uscire di là, mi sedei sopra uno sgabello di paglia, e stetti a guardare l'opera e l'operajo. Maestro Giacomo (si nominava così) aveva principiato a battere il cuojo colla solita armonia dei ciabattini, quando entrò in bottega il conte che io aveva veduto alla festa da ballo. Il racconciatore delle mie scarpe si alzò premurosamente, e tutto ossequioso lo invitò a seguirlo in una stanza vicina. Colà si trattennero due o tre minuti, ed io senza volerlo intesi qualche cosa di quel breve colloquio, tenuto non abbastanza sommessamente. Maestro Giacomo chiamava illustrissimo il suo interlocutore, e gli dava non so quale danaro, scusandosi che fosse poco. L'illustrissimo diceva che era anche troppo, faceva i suoi ringraziamenti, e si protestava obbligato di tanta bontà. Quindi ricomparvero in bottega, e Giacomo, sempre riverente, accompagnò il visitatore fino all'uscita sulla strada. Allora io notai che il calzolajo era zoppo, e che rimettendosi a sedere aveva preso un'aria di tristezza mal confacente al suo volto sereno e gioviale. Egli tornò a battere il cuojo, ma con misura concitata e precipitata, non dicendo parola, e mandando qualche sospiro. Ecco l'occasione, io pensai, di cavarmi la mia curiosità di jeri sera, curiosità cresciuta infinitamente dopo ciò che aveva allora inteso e veduto.
      Galantuomo, voi siete turbato da qualche dispiacere, dissi rompendo il silenzio, e gettando via un ritaglio di pelle che io aveva foracchiato colla lesina come per baloccarmi.
      Non signore, soggiunse egli richiamando sul volto la serenità di prima.


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Tre racconti sentimentali
di Paolo Bettoni
Borroni e Scotti Milano
1855 pagine 106

   





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