Mentre dapprima predominavano le teorie contagioniste, a poco a poco presero il sopravvento le teorie contrarie.
Interpretando meno che rettamente i risultati ottenuti nell'esame dei cadaveri, si volle vedere nel tubercolo null'altro che la conseguenza di una infiammazione, null'altro che il prodotto di un'irritazione, che ha esercitato la sua azione su di una parte predisposta, a cagione di debolezza congenita o acquisita, a sentirla in un modo speciale.
Ammessi questi principii, si comprende come la prevenzione della tubercolosi si dovesse ricercare in provvedimenti ben diversi dall'isolamento dei tubercolosi e dalla disinfezione delle loro robe; chè, anzi ogni prescrizione in questo senso era ritenuta superflua e sconsigliata.
Tutto si riduceva a rinforzare la costituzione dell'organismo, e ad evitare le irritazioni di qualunque natura, specie quelle delle parti che sono sede prediletta dei tubercoli, come le vie aeree e i polmoni.
Questi erano i concetti cui s'informavano le discipline sanitarie della prima metà di questo secolo, e che dominavano ancora in tutta Europa poco più di trent'anni fa. A quei tempi, così poco discosti dagli attuali, i tisici si tenevano senza precauzione in mezzo agli altri malati ed ai sani, lasciando così campo libero al diffondersi del contagio; una lotta efficace contro la tubercolosi era considerata come una utopia.
Ma un esperimento semplicissimo, fatto sugli animali, da un professore quasi ignoto di Strasburgo, venne a sconvolgere tutto ciò, e a dimostrare in modo certo, indiscutibile, la natura infettiva della tubercolosi.
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