Del nemico crescente soverchiati,
Non danno in piega, e nella strada azzuffansiCon i soldati;
Bramosi di pugnar più che di vivere,
Scagliansi ai capi genovesi addosso;
E crivellati di ferite, accennanoAl Monte-Grosso.
Qual gladiator che con un: «Salve, o Cesare!»
Agonizzante, conchiudea la giostra,
Quei valorosi nel morir salutanoL'isola nostra.
O spegli di virtute che rifulgonoTra i più chiari dei secoli decorsi!
O fortunati che esalaron l'animaDa veri Corsi!
Il bieco Doria sull'eroiche spoglie,
Che sacrilego oltraggia, il ferro abbassa;
E coi piè sozzi di cruenta polvereLe calca, e passa.
Vinte le sbarre del cammino, incauto,
Dell'espugnata terra occupa il centro;
E inferociti i suoi pedoni, innoltransiSempre più addentro.
Qui, dalle case ch'erano ricoveroDei popolani, a guisa di torrente
Sceso da forra, sgorga a rivi fumidiL'olio bollente(20).
Come sgombra la lava del Vesuvio
Le colline di Napoli leggiadre,
Così disperde la cocente pioggiaLe avverse squadre.
Dalle dischiuse stalle, a precipizio,
Fuggono i tori nei propinqui vici;
Urtan, trafiggon, pestano, rovescianoMolti nemici.
La vampa dello zolfo e della ragiaDalle bestie agli sgherri si propaga;
Accresce lo scompiglio e il timor panico;
Gli arde e gl'impiaga.
Quarti di scoglio, interi tronchi d'alberoDai ripidi comignoli dei tetti,
Come valanga(21) rovinosa, frananoSui maladetti.
Dagli alveari che le donne spingonoGiù nella via, dove rimbalzan franti,
L'api stizzose, invelenite, svolanoSui compri fanti.
Or nelle chiome, a sciami, gli s'avvolgono,
Or li minaccian di trafitte agli occhi,
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