Secondo la Curia, difatti, le due potestà non erano lasciate sussistere se non a patto che l'imperiale obbedisse e la pontificale comandasse; che quella, come s'espresse piú tardi chi effettuerà per breve ora cotesto ideale, fosse a questa come la luna al sole, come la notte al giorno, come il corpo all'anima. Né è a dire, che Guntero accenni a tutt'altra opinione di Arnaldo dove dice, ch'egli volesse nel governo dello Stato non lasciare nessun diritto al pontefice, poco al re. Poiché, in realtà, quando il senato e il popolo avessero riacquistato tutti i lor diritti di prima - diritti, che Arnaldo e i Romani s'immaginavano rimasti prevalenti anche durante l'impero - restava assai poco di potere al re; e che al papa non ne rimanesse nulla, è patente.
XV.
Corrado III ricusò di udire i legati di Roma, e non fece loro migliore accoglienza, quando gliene mandarono altri al suo ritorno di Palestina, e nelle diete di Ratisbona e di Wurzburgo del 1151 fu decisa la discesa in Italia. È vero che questa seconda volta rispose, ma fu risposta piú disdegnosa e dolorosa dell'altero disprezzo di cinque anni prima; poiché vi manifestava quanto gli paresse vuota di forze e tutta vana la boria romana. Fatto è che l'acerbo silenzio e l'acerbe parole contribuirono del pari a un doppio effetto: l'uno di spingere Arnaldo e i suoi a piú estremi consigli; l'altro, non riusciti questi, di dare, come suole, il di sopra alla parte contraria.
Il primo c'è manifestato da una lettera di Eugenio III all'ab. Guibaldo(18) del 20 settembre 1152, cioè sette mesi dopo la morte di Corrado III, e mentre la discesa in Italia e la incoronazione a imperatore si trattavano con Federico I, nipote di quello, eletto re il 4 marzo del 1153, e ben maggiore uomo.
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