È vero che una simile tesi, non che scoprirsene traccia in Abelardo(29), è esplicitamente ripudiata da lui; ma Arnaldo la trovava già professata da' Paterini e altre sette in Lombardia e fu poi comune agli eretici posteriori, da Vicleffo in poi; che il dominio, questi diceva, è fondato nella grazia; sicché cessa ogni giurisdizione spirituale nel sacerdote, quando egli per i suoi costumi e per i suoi atti se ne renda indegno. Ora, a chi spetta il giudicarlo? A chi può spettare il sentenziare che il sacerdote è decaduto dall'ufficio suo, dal suo ministero? Non può spettare che a' laici. Però è detto d'Arnaldo che egli adulasse questi; ch'egli fosse adulatore della plebe; che dovunque egli andava, laici e clero non vivessero piú in pace insieme; ch'egli seminasse la discordia, e sciogliesse l'unità della Chiesa, come ne l'accusa Eugenio III, il quale afferma che dalle parole di lui alcuni cappellani fossero stati indotti a negare obbedienza e riverenza a' cardinali e agli arcipresbiteri(30). Qui era il suo scisma pessimo, come Bernardo lo chiama; il suo errore, il suo domma, di cui gli altri discorrono con orrore. Pure qualche tempo innanzi ad Arnaldo vi erano stati pontefici - e tra questi il grandissimo Gregorio VII - che avevan sostenuto questo stesso domma per acquistare forza e reprimere la baldanza del clero concubinario e simoniaco che volevano correggere!(31). Ed era stata la gerarchia cattolica quella che aveva difeso contro essi la dottrina della indelebilità del carattere.
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