Lo supplicavano a consentire "alla politica della provvidenza, del perdono, della civiltà e della carità cristiana".
Ma il 7 gennaio del 1848 potette dare maggiore e miglior prova della perspicacia della sua mente e della risolutezza del suo spirito. Egli aveva già fermato in mente dove il movimento italiano potesse riposare, e doveva credere che il governo, solo anticipando e prevenendo le richieste avvenire e prevedibili del popolo tumultuante, avrebbe potuto riguadagnare quell'efficacia morale che doveva aver persa coll'accordare, sforzato e a spilluzzico, le riforme che gli si andavano strappando di mano l'una dopo l'altra. Perciò, quando una deputazione venne da Genova e chiedere al Re Carlo Alberto la instituzione della guardia civica e l'espulsione de' Gesuiti, e i varî direttori e scrittori dei giornali politici venuti su in quei tempi nel Piemonte, il Brofferio del Messaggiere Torinese, il Valerio della Concordia, il Durando dell'Opinione, e il Galvagno, il Santarosa, il Cornero, il Castelli e il Vineis, si furono, sotto la presidenza del marchese Roberto d'Azeglio, raccolti a deliberare, ed ebbero risoluto di appoggiare le proposte di Genova, il Cavour, che, in qualità di direttore del Risorgimento, era presente, si contrappose egli solo, e gridò: "A che servono delle riforme che non concludono, delle dimande che, acconsentite o negate, turbano lo Stato e diminuiscono l'autorità morale del governo? Si chieda la Costituzione. Poichè il governo non si sa reggere sulla base sulla quale si è retto sinora, se ne dia un'altra conforme all'indole dei tempi e a' progressi della coltura, prima che sia troppo tardi, e tutta l'autorità sociale sia sciolta e precipitata davanti a' clamori del popolo".
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