Il paese aveva, dunque, sentita la leale parola del Re, che l'Azeglio gli aveva fatto dirigere con ardire degno d'un uomo di Stato, e colla coscienza sicura sotto l'usbergo del sentirsi pura.
A capo del centro-destro era il Cavour, a capo del sinistro era il Rattazzi(27): due uomini di levatura diversissima, e il primo troppo superiore al secondo quanto alla larghezza de' concetti politici, all'intelligenza della libertà e al tatto e previdenza dell'uomo di Stato, ma ambedue abilissimi nella condotta delle parti e delle discussioni parlamentari. Il Rattazzi gli è un oratore dalla parola fluida ed elegante, dal ragionamento stretto e sottile, che nessuna dimostrazione spaventa, nessuna difficoltà arresta; destro a scoprire i vani delle proposte altrui per ficcarvi il cuneo della sua dialettica e scinderle e scioglierle, destro a velare le lacune delle proprie, e nascondere coll'apparenza d'una logica rigorosa la deficienza intrinseca dell'argomento. Quando, il 14 marzo, propose, all'entrata della seconda campagna, una legge sospensiva d'ogni libertà (la qual cosa parve enorme al Cavour), alcuni deputati gli facevano osservare quanti soprusi da questo arbitrio concesso al governo sarebbero potuti nascere; ed egli rispondeva: "Se noi siamo capaci di abusare, non abbiamo bisogno di leggi; la forza l'abbiamo già, e possiamo abusarne sin da ora"(28); quasi non ci corresse divario tra il sopruso a cui contrasta una legge, e quello cui una legge permette. E il giro del suo argomento non esce dalle forme stesse in cui la quistione gli si presenta; non l'abbraccia, non la sviscera, non la trascende: contrasta od accozza le varie parti del concetto altrui o del proprio, non guarda cotesto concetto nel complesso delle sue relazioni, nella sua origine, ne' suoi effetti.
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