Nè forse trovava facilmente chi volesse assumersi parte della responsabilità enorme che allora pesava ed ancor pesa sulle sue spalle. Cosicchè quando Lamarmora partì per l'ultima guerra d'Italia, egli, già presidente del Consiglio e ministro degli Esteri e degl'Interni, anche della Guerra dovette addire a se medesimo l'amministrazione.
La pace di Villafranca non poteva essere accettata da lui, perchè non concordi gli effetti con le promesse, nè col fine dell'indipendenza nazionale, la cui necessità tutta l'Europa riconosceva. Egli stesso, adunque, dimettendosi, consigliò al Re a chiamare il Rattazzi e a dargli incarico di comporre una nuova amministrazione. Di quella fu presidente il Lamarmora, ma il Rattazzi stesso l'effettivo capo politico. Se non che neanche questa volta mostrò questi animo e mente pari alle occasioni. Quantunque, nell'affrontare gl'interessi e le vanità municipali, facesse prova di un coraggio degno d'un uomo di Stato - di un coraggio, devo pur dire, che i ministri che gli succedettero dovrebbero avere ereditato almeno in parte - pure, nel complesso, tenne all'interno una politica violenta sotto un rispetto, e debole sotto un altro, che ebbe per effetto di turbare soverchiamente gli animi de' Lombardi, e di suscitare i partiti estremi; e, senza impedire, non progredì abbastanza nella soluzione delle gravi questioni che l'Italia, in quel frattempo, presentava; giacché i voti dei popoli di Toscana e dell'Emilia faceva accogliere dal Re, ma non esaudire, e senza indietreggiare a dirittura, non si risolveva ad avanzare; nè mostrava credere che si potesse quello che, di certo, da ottimo italiano ch'egli è, nel segreto dell'animo desiderava.
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