L'Italia centrale era, bensì, unita al Piemonte: ma la Francia pareva avere piuttosto tollerata che voluta l'unione; l'Austria protestava, non frenandola dall'intervenire altro che la paura di attirare da capo i Francesi in Italia con maggior sua rovina. L'esercito pontificio aumentava, racimolando da ogni parte denaro e soldati: e un generale d'illustre riputazione gli dava credito e baldanza. L'esercito napoletano si raccoglieva sulle frontiere; e il Re di Napoli, quantunque tentato con ogni qualità di proposte, si mostrava risoluto a seguire l'indirizzo del padre suo, e a restare fedele al Pontefice e all'Austria. Il conte Cavour aveva pericolo nel fermarsi e nel continuare. Il fermarsi gli suscitava contro la parte più vivace e impetuosa, più audace e vigorosa del partito unitario italiano, il quale era andato ingrossando, a misura che gli avvenimenti erano andati rendendo probabile quello che da prima era parso impossibile, l'unità italiana. E quella parte diventava un pericolo interno tanto maggiore, quanti più erano gl'incentivi alla sua azione: e allora appunto se n'era suscitato uno grandissimo, l'insurrezione di Sicilia, a cui non pareva tollerabile che i liberali dell'Alta Italia, tanto per la fratellanza dell'origine, quanto per la comunità degli interessi, degli affetti alla patria e degli odî a' Borboni, non arrecassero aiuto. Anzi, c'era meglio che un incentivo; quella audace e numerosa parte aveva un capo, un capo il cui nome e i suoi fatti affascinavano gli animi giovanili, e gl'inducevano nella persuasione che veruna impresa generosa dovesse parer temeraria; un capo, per soprappiù, nemico al governo del conte di Cavour, così per i casi occorsi durante il ministero Rattazzi nello scorcio del 1850, quanto per la cessione di Nizza, che a Giuseppe Garibaldi, nizzardo, era parso un insulto ed una fellonia.
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