II.
Giuseppe Garibaldi compì, con fortuna pari all'ardire, una impresa, che, non che ad ogni altro, a lui stesso sarebbe parsa, a ragionarvi su, impossibile. Sbarcato a Marsala il 17, era il 27 in Palermo, fugando davanti a sè le schiere borboniche e forzandole a resa, egli con soli 1000 uomini contro 25.000. La riuscita d'un'opera così disperata accresceva il fascino del suo nome su' popoli non solo d'Italia, ma d'Europa, e d'ogni parte convenivano sotto la bandiera dell'eroico e felice capitano giovani baldi e sicuri a cui l'ardore dell'animo non faceva computare i pericoli; gli entusiasmi dell'idea, aprivano i larghissimi campi delle speranze avvenire d'ogni nazione che gema, e la felicità del capitano non lasciava menomamente dubitar del successo. Chi gli avrebbe mai potuti fermare, e dove mai si sarebbero potuti fermare? Abbracciavano già con la capacità dell'affetto ogni popolo; e ad ogni querela, fondata o vana, si promettevano di fare contro i veri o presunti oppressori giustizia. La prima volta, pareva loro, il diritto e la forza s'erano date un bacio, pegno di amicizia non più dissolubile.
La spada di Garibaldi dette l'ultimo urto alla monarchia de'(30) Borboni; ma questi, a principio, credettero potersi reggere non mutando che di sistema. Mentre il filibustiere, come essi chiamavano l'eroe popolano, ingrossava in Sicilia il suo esercito improvvisato, Francesco II, cedendo alle istanze della Francia, accordò una Costituzione ai suoi popoli. Gittava a mare i suoi diritti di sovrano assoluto, sperando che, intanto, la barca dello Stato, alleggerita, sarebbe riuscita a scampare dalla tempesta, ed egli poi avrebbe potuto a suo tempo ripescare quei diritti da capo.
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