Quindi, offrì al Re la dimissione sua e quella di tutti i suoi colleghi. Ma il Re, con un giudizio giustissimo e un tatto squisito, non credette che sarebbe stato di buono effetto morale e politico l'accettare la rinuncia d'un ministero, nell'intervallo di una sessione, e senza che nessun voto dell'assemblea intervenisse a provare, che la maggioranza de' rappresentanti della nazione fosse venuta in opinione che in altre mani stesse meglio il governo.
Quando, dopo pochi giorni della sua dimora in Napoli, il Garibaldi credette bene d'annunciare con una lettera pubblicata il suo malanimo contro il ministro; e con missioni più o meno segrete e palesi, ebbe fatta esplicita richiesta al Principe di licenziare i suoi consiglieri, il conte Cavour non avrebbe più potuto retrocedere "senza recare", com'egli, stesso diceva nella tornata dell'11 ottobre, "al sistema costituzionale una grave, anzi una mortale ferita".
Fra' beneficî dei quali l'Italia va debitrice a cotesto uomo di Stato, non parrà ultimo la fermezza di cui egli dette segno allora; nè tra le prove che si possono addurre della resoluta efficacia del suo carattere e della lucidezza della sua mente, sarà reputata la più debole quella che si può raccogliere da' fatti che seguirono.
Egli intese, che restare al timone non si poteva senza coraggio; ma che il coraggio, però, di per sè solo non sarebbe bastato a rimanerci. Quando il Garibaldi aveva potuto fare una simile domanda al Principe, il rifiuto di acconsentirgli era, di certo, indizio che non s'era persa ogni forza; se non che l'essere stata fatta, d'altra parte, bastava di per sè solo a mostrare, che l'autorità morale del governo e del partito nazionale e legale ch'esso rappresentava, era pressochè spenta.
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