Di certo, l'amministrazione interna non procede ordinata e spedita in nessuna delle province italiane; certo, in ogni sua parte ci ha molti errori, vecchi e nuovi, a riparare; certo - se non Garibaldi, il quale se, per l'indole sua stessa, non può diventare un sussidio ed un amico sicuro, pure per la lealtà del suo animo, si trarrà sempre indietro quando si vedrà lanciato per una via che menerebbe a discordia - un partito che si serve dell'aura popolare che circonda il suo nome, continuerà a spargere di triboli la via al governo; certo, il disavanzo delle finanze è pauroso, e costringe a chiedere a' popoli che alla libertà sacrifichino, prima che l'abbiano de' beneficî scoperta e sentita una Dea. Se non che l'indole stessa del conte di Cavour, in quella sua parte che può essere ragionevolmente censurata, lo pone in grado di nutrire ferma fiducia che l'amministrazione e le finanze si riordineranno quando il problema politico sarà risoluto affatto; ed a risolverlo la pressione stessa che gli fa Garibaldi con la parte più sana del suo partito, gli giova.
Cotesto problema - il conte Cavour sa, e l'ha detto al Parlamento e all'Europa - non può essere risoluto che a un patto solo; che Roma sia capitale d'Italia, e Venezia sia tolta all'Austria.
Il conte Cavour non tralascerà - possiamo arguirlo dal passato - nessuna occasione che gli dia modo di entrare in Venezia e in Roma. Alla sua maniera, non è deliberato sui mezzi, nè vuole o può indovinare di dove e come debba venire la salvezza.
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