L'ebbe a educatore, per modo negativo, s'intende, perocchè la sua educazione consistesse nel lasciar correre e far da sè la natura. La quale, in Francesco Domenico, novissima e fierissima, poteva camminare a sua posta per vie men frequentate e sole, agitata (quasi presentimento dell'avvenire) dagli impeti strani e dai singolarissimi tormenti che le anime eccelsamente poetiche ebbero mai sempre compagni ed avranno, se prima non si dissolva l'universo.
Per maestro gli toccò il barnabita Spotorno, che, più tardi, quando egli fu adulto e chiaro nelle lettere, anche gli si dimostrò critico severo e intollerante; letterato di qualche grido in que' tempi, non privo di certa dottrina, ma solennissimo pedante da spegnere, come acqua gelida, ogni fuoco di genio e da ridurre alla disperazione i suoi migliori discepoli con le prose del Cavalca e le poesie della Bella mano, il Pandolfini, il Castelvetro, lo Speroni, fatti trangugiare a dosi doppie, con il Bembo e il Della Casa, colonne d'Ercole, per suo avviso, così del pensare come dello scrivere.
Il giovinetto, non ostante la eccellente natura, cresceva disattento, svogliato, pigro e fannullone. Meglio avvisato del maestro, gli soccorse allora il padre, donandogli a un tratto e accennandogli, con brevi parole e tronche, di aprire tutta una cassa di libri d'ogni ragione e stampo, salva sempre la morale. E fu un vero rivolgimento; perocchè gli si accese furiosissima addosso la passione di empirsi cupidamente e subito le bolge e il seno di cotesto suo nuovo curiosissimo tesoro, leggendo di sera e di mattino, di giorno e di notte, in qualunque tempo potesse rubare ad altri doveri e sottrarsi alla vigilanza della famiglia inquieta della sua salute.
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