Quest'aria sepolcrale ci opprime, questo lenzuolo funerario è la veste nuziale delle anime desolate: per Dio! nostra culla è la bara. Noi non dobbiamo vivere morti: o morti tutti, o vivi.»
E codeste parole, tratte dalle sue memorie, vi spiegano eziandio la singolarità delle forme, l'arditezza, che per poco io non dico audacia, dello stile e quel non so che di straordinario dello scrittore e dell'uomo onde egli si appresenta alle scosse immaginazioni in aspetto titanico e direi anche satanico: certo, più che umano. Ora prosieguo la similitudine, perchè mi giova, del pittore e del quadro: qui, nello Assedio, non si nasconde il pittore per mettere sola in mostra l'opera sua, ma vi si ferma accanto e dinanzi vi chiama lo spettatore a contemplarlo, a meditarlo, e sentirne l'intima vita. Guerrazzi, dice Giuseppe Mazzini, «racconta e perora, descrive e giudica, premia o punisce ad uno ad uno egli stesso i personaggi che egli evoca. Talora ci si identifica co' suoi eroi, più spesso con Firenze, col popolo, con la causa che il popolo e Firenze rappresentano; ma per breve tempo e non mai tanto che l'immagine sua si cancelli interamente per noi. Quando si avvede che noi stiam presso per dimenticare il presente e a confondere la nostra vita con la vita di Ferrucci, di Carducci, di Michelangelo, ei sottentra quasi minaccioso ad afferrarci, a svincolarci dalle individualità del romanzo, a ricacciare l'anima nostra, informata ancora di quella impronta del passato, nella realità del presente, sì che ne senta più forte e doloroso il contrasto.
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