Ancora sarebbe pregio dell'opera ricordare che, se il racconto guerrazziano inferociscono delitti su delitti e scene di odj e di sangue da inorridirne l'anima di chicchessia, lo ingentiliscono dilicati e amorosi caratteri, massime di donne, angeli di dolore, di sacrificio, di pietà, momenti di affetto sublime; e, tratto tratto, pitture di luoghi da muovere invidia all'Albani, di cose e di fatti che vincono in soavità il Raffaello; e lo esilara il capitolo dell'Asino, amore del Curato e di Verdiana e di Giannichio, capo lavoro di umorismo, quale non trovi in Sterne od in Rabelais. Ma resterebbe sempre a domandarsi perchè l'egregio scrittor livornese abbia voluto scegliere un tema dove il truce e l'immane doveano naturalmente predominare.
La risposta è nell'odio ch'egli professa costante, indomabile, mortale al Papato, non pure stromento, a suo credere, di servitù alla Italia, ma ancora di oppressione all'anima umana, alla libertà del mondo. Ed è un nuovo e, sto per dire, più terribile assalto contro di esso il romanzo della Beatrice Cenci.
La gentile e pia donzella era innocente della colpa appostale; ciò sapevano e certamente reputavano vero accusatori e giudici, Clemente VIII ed i suoi due nipoti, i cardinali Cinzio e Aldobrandino; i quali, per certi bassi loro fini, non pure accrebbero oltre il bisogno sulle persone dei Cenci i più squisiti tormenti, affinchè il popolo dalle apparenze li giudicasse più rei che infatti non erano, nè perscrutasse gli arcani intendimenti della accusa e della condanna, ma ancora portarono a cielo il nome di Francesco Cenci cui tutta una vita di colpe rendeva infame; e infamarono col racconto di favolosi delitti i figliuoli e la moglie di lui, de' quali la santissima vita passata dovea rendere dubbia la sola colpa di cui fossero imputati.
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