Sono quattro libri, dove, con strana e pur efficace miscela, trovi calma di storico e commozione di drammaturgo, raziocinio di filosofo e impeto di poeta, sentenziare d'uomo di stato e scappate da tribuno, amore e odio sconfinati, sorriso e sogghigno, persuasione e comando, preghiera e maledizione, inno ed epigramma, raggio di paradiso, fiamma d'inferno; dubbio costante e, pur nel dubbio, speranza; sete tantalica di verità e di giustizia; cammino affannoso, tormento mortale per inumidirne almeno le labbra sue ed altrui. Pagine sovratutto vendicatrici. Pertanto niuna meraviglia se nel furore di così grande passione qualche volta involontariamente, inconsciamente travalichi il confine del giusto; se, a danno forse della sostanza, talora la sua forma, qua e là, stranamente inviperisca. Ben è vero che l'anima sua generosa subito si ricrede e si ripiglia; e che, dove la narrazione storica incomincia e cammina di proposito, anco la forma si avvicina di molto, se non del tutto, a quella delle vite del Doria, del Ferrucci, del Sampiero, del Burlamacchi.
Ma, per attendere a storie e quasi storie, egli non pose ingratamente in disparte i lavori d'immaginazione, ai quali deve specialmente la sua fama in Italia e fuori; e pubblicò il racconto delle audaci ribalderie, strane avventure e tragica fine del cavaliere don Paolo dei Pelliccioni, che fu bandito famosissimo dei tempi di Sisto V; pruno negli occhi di cotesto papa, a cui non si peritava recare più di un fastidio, senza ch'egli mai venisse a capo di averlo nelle mani per farne giustizia e prenderne vendetta.
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