Quando finalmente, con nuovo comechè volgare e sbirresco stratagemma, vi riuscì, ne menò festa grande come di solenne vittoria. Con che fine ironia e maligna compiacenza Guerrazzi abbia preso ad ornare di tutta la leggiadria del suo magico stile e della lingua la descrizione di questi due caratteri, il papa e il bandito, alle prese, per così dire, fra loro, gareggianti d'astuzia, di fraude e di ferocia, pensi chi legge. «Se questa sua storia valesse ad aggiungere un filo solo alla trama di odio ordita contro le turpezze e le infamie della Corte romana..., già sarebbe un bel guadagno.» Udii più volte caratterizzarsi per beffardo lo scrittor livornese; se mai fosse, qui la beffa toccherebbe l'ultimo confine, e nel concetto più che nella veste del libro. Troppe, nondimanco, a mio credere, nel Pelliccioni e troppo accumulate e senza scopo le scelleraggini crudeli; scarse le tinte gentili; caricature, qualche volta, invece di ritratti; e con poco nesso il dramma; e la figura del protagonista non abbastanza degna di chi avea saputo nella Battaglia di Benevento rendere così bella e simpatica la persona di Ghino di Tacco.
Schiettamente, preferisco un altro racconto, più antico e di mole assai minore, il Pasquale Sottocorno, storia cara e patetica di quel ciabattino milanese che nelle cinque famose giornate ardiva appiccare con nuovo modo l'incendio al palazzo della ingegneria, dove accampava una mano di Austriaci furibondi. Guerrazzi degnissimamente e con affettuosissimo cuore lo vendicò dell'obblio e della fame in cui, esule, fu lasciato morire da chi pure gli dovea gran parte della sua salvezza: postumo premio della virtù modesta e popolana.
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