Ve n'erano 8.000 a Roma al tempo di Augusto, ed anzi il giudaismo vi era alla moda, come si apprende da Orazio, il quale ha un verso curioso, citato dall'Havet, in cui essi sono dipinti come propagandisti ad oltranza.
Già nell'anno 22 sotto Tiberio, ebbe luogo un senato-consulto contro gli Ebrei e gli Egiziani che secondo Tacito, come abbiam già visto, formavano a Roma una superstizione sola.
Orbene: gli Ebrei portavano a Roma, più che ogni altra religione, precisamente ciò di cui Roma, anzi il mondo intiero, aveva sete: vale a dire la credenza nella prossima fine del mondo seguìta dalla risurrezione o palingenesi universale; l'esaltazione della povertà, degli umili e dei sofferenti; e l'esaltazione del misticismo religioso che allora era al colmo, perché, essendo una malattia, essa infierisce specialmente nelle epoche di dolore e di prostrazione sia nella vita dei popoli come in quella degli individui.
La credenza nella prossima fine del mondo e in una rigenerazione della vita importata nel mondo latino dalla Persia, era generale in quell'epoca, dall'India a tutto il Mediterraneo, e in Occidente se n'erano fatti interpreti Plutarco, Lucrezio, Ovidio, Virgilio, Lucano e Seneca. I libri del Nuovo Testamento, discordi in quasi ogni altra cosa, erano concordi su questo punto, sul quale riposava la credenza nella prossima venuta del Messia. La religione giudaico-cristiana veniva quindi a dare una destinazione a questa credenza, eppertanto essa doveva tornare la più accetta a quell'ambiente esaltato, come quell'ambiente era il più disposto perché essa potesse attecchire e spandersi rapidamente, come una macchia d'olio su d'una superficie piana.
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