Ma ciò che più doveva contribuire alla fortuna del cristianesimo era la tendenza eminentemente popolare del giudaismo, tendenza che tanto nella letteratura quanto nelle figure ideali dei suoi personaggi era siffattamente suggestiva per gli umili, gli oppressi ed i piccoli da convertirli in massa alla nuova fede. È questo elemento, venuto al cristianesimo dal giudaismo, che spiega come e perché quella medesima morale e quella medesima dottrina che la filosofia greco-romana già professava da secoli in modo tanto sublime e per forma letteraria e per virtù di esempi, non divennero popolari, non si generalizzarono che per il canale della nuova religione. Solo che, con la religione cristiana quella filosofia, in luogo di una redenzione, fu una illusione peggiore del male, fu una decadenza che ritardò la redenzione che prometteva di tanto ancora quanto sarebbe durato il cristianesimo, perché la collocò nell'al di là, nella vita futura, predicando, in questa vita, la rassegnazione e la miseria come di diritto divino, e come un mezzo meritorio agli uni per esercitare la carità, agli altri per dar modo ai primi di esercitarla e rendersi degni del regno dei cieli. Sotto questo aspetto, morboso fu anzi il trionfo del cristianesimo, poiché prometteva la felicità con la sola speranza, scompagnata da qualsiasi azione ed iniziativa, sola fonte di ogni verace progresso morale e materiale.
Ma queste erano bene le armi della vittoria, l'in hoc signo vinces di quell'epoca, in cui il sentimento di rivolta alla miseria ed all'oppressione si era affinato e generalizzato per forza di cose e delle dottrine filosofiche convergenti a questo fine.
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