Perciò tutto il male nel secolo XV stette nell'imitazione, nell'aver voluto modellare tutto sovra gli esemplari dell'antichità, ritrarli con una servilità incredibile, nel credere infine, che nulla di nuovo e di peregrino fosse pur da tentare. E ciò riconduce il nostro discorso a quello che dicemmo più sopra della non buona imitazione, a cui si riducono in fondo i mali e i danni che dal risorgere dell'antichità classica alle nostre lettere derivarono.
Al novero degli eruditi appartiene, non solo per ragione di tempo ma di studi, Leonardo Aretino. Nato quando cominciava a risorgere l'antichità classica e a fiorire l'erudizione, quando le lettere italiane insieme alla lingua decadevano, rivolse all'antichità e all'erudizione le cure d'ingegno. Quantunque egli tenesse in grandissima venerazione Dante, il Petrarca e il Boccaccio, e le opere loro sommamente ammirasse, pur nondimeno non seppe risolversi a scrivere nella lingua illustrata da loro, ma le principali sue opere dettava in latino. Solamente due scritti brevissimi e degni di qualche considerazione si hanno di lui in volgare, le Vite di Dante e del Petrarca. Da questi piccoli saggi egli è facile d'intravvedere a quale eccellenza sarebbe pervenuto dove tolto avesse a coltivare la natia favella. Però è tanto più da deplorare che tutte le sue industrie e le sue cure volgesse a una lingua morta, da cui non poteva venirgli mai fama durevole. Si lascino pur dire i contemporanei di lui, taluno de' quali spinse l'esagerazione al segno da paragonare il suo stile a quello del gran Livio e di Cicerone; mentre da questi immortali scrittori e dagli esemplari insuperabili ch'ei ci lasciarono è tanto discosto, che farebbe segno di poco sano giudicio chi ad essi compararlo volesse.
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