Filoteo. Vedrai che né in questo la nostra cena è dissimile a qualunqu’altra esser possa. Come dunque là, nel piú bel del mangiare, o ti scotta qualche troppo caldo boccone, di maniera che bisogna cacciarlo de bel nuovo fuora, o piangendo e lagrimando mandarlo vagheggiando per il palato sin tanto che se gli possa donar quella maladetta spinta per il gargazzuolo al basso; overo ti si stupefà qualche dente, o te s’intercepe la lingua che viene ad esser morduta con il pane, o qualche lapillo te si viene a rompere e incalcinarsi tra gli denti per farti regittar tutto il boccone, o qualche pelo o capello del cuoco ti s’inveschia nel palato per farti presso che vomire, o te s’arresta qualche aresta di pesce ne la canna a farti suavemente tussire, o qualche ossetto te s’attraversa ne la gola per metterti in pericolo di suffocare; cossí nella nostra cena, per nostra e comun disgrazia, vi si son trovate cose corrispondenti e proporzionali a quelle. Il che tutto avviene per il peccato dell’antico protoplaste Adamo, per cui la perversa natura umana è condannata ad aver sempre i disgusti gionti ai gusti.
Armesso. Pia e santamente. Or che rispondete a quel che dicono, che voi siete un rabbioso cinico?
Filoteo. Concederò facilmente, se non tutto, parte di questo.
Armesso. Ma sapete che non è vituperio ad un uomo tanto di ricevere oltraggi, quanto di farne?
Filoteo. Ma basta che gli miei sieno chiamati vendette, e gli altrui sieno chiamati offese.
Armesso. Anco gli Dei son suggetti a ricevere ingiurie, patir infamie e comportar biasimi: ma biasimare, infamare e ingiuriare è proprio de’ vili, ignobili, dappoco e scelerati.
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Adamo
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