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      Però si son trovati di quelli che, avendo ben considerata la raggione delle forme naturali, come ha possuto aversi da Aristotele ed altri simili, hanno concluso al fine che quelle non son che accidenti e circostanze della materia; e però prerogativa di atto e di perfezione doverse referire alla materia, e non a cose, de quali veramente possiamo dire che esse non sono sustanza né natura, ma cose della sustanza e della natura, la quale dicono essere la materia; che appresso quelli è un principio necessario, eterno e divino, come a quel moro Avicebron, che la chiama Dio che è in tutte le cose.
      Teofilo. A questo errore son stati ammenati quelli da non conoscere altra forma che l’accidentale; e questo moro, benché dalla dottrina peripatetica, nella quale era nutrito, avesse accettata la forma sustanziale, tuttavolta, considerandola come cosa corrottibile, non solo mutabile circa la materia, e come quella che è parturita e non parturisce, fondata e non fonda, è rigettata, e non rigetta, la dispreggiò e la tenne a vile in comparazione della materia stabile, eterna, progenitrice, madre. E certo questo avviene a quelli che non conoscono quello che conosciamo noi.
      Dicsono Arelio. Questo è stato molto ben considerato; ma è tempo che dalla digressione ritorniamo al nostro proposito. Sappiamo ora distinguere la materia dalla forma, tanto dalla forma accidentale (sia come la si voglia) quanto dalla sustanziale; quel che resta a vedere è la natura e realità sua. Ma prima vorrei saper se, per la grande unione che ha questa anima del mondo e forma universale con la materia, si potesse patire quell’altro modo e maniera di filosofare di quei che non separano l’atto dalla raggion della materia, e la intendono cosa divina, e non pura e informe talmente che lei medesma non si forme e vesta.


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De la causa principio et uno
di Giordano Bruno
pagine 135

   





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