Questo intende in parte Averroe, il qual, quantunque arabo e ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica però intese piú che qualsivoglia greco che abbiamo letto; e arebbe piú inteso, se non fusse stato cossí additto al suo nume Aristotele. Dice lui che la materia ne l’essenzia sua comprende le dimensioni interminate; volendo accennare che quelle pervegnono a terminarsi ora con questa figura e dimensioni, ora con quella e quell’altra, quelle e quell’altri, secondo il cangiar di forme naturali. Per il qual senso si vede che la materia le manda come da sé e non le riceve come di fuora. Questo in parte intese ancor Plotino, prencipe nella setta di Platone. Costui, facendo differenza tra la materia di cose superiori e inferiori, dice che quella è insieme tutto, ed essendo che possiede tutto, non ha in che mutarsi; ma questa, con certa vicissitudine per le parti, si fa tutto, e a tempi e tempi si fa cosa e cosa: però sempre sotto diversità, alterazione e moto. Cossí dunque mai è informe quella materia, come né anco questa, benché differentemente quella e questa; quella ne l’istante de l’eternità, questa negl’istanti del tempo; quella insieme, questa successivamente; quella esplicatamente, questa complicatamente; quella come molti, questa come uno; quella per ciascuno e cosa per cosa, questa come tutto e ogni cosa.
Dicsono Arelio. Tanto che non solamente secondo gli vostri principii, ma, oltre, secondo gli principii de l’altrui modi di filosofare, volete inferire che la materia non è quel prope nihil, quella potenza pura, nuda, senza atto, senza virtú e perfezione.
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