E allora, come adesso, non si agitavano solo coi reciproci strapazzi e col prezzolare la penna di quei petulanti per cui è un bisogno l'odiare e il farsi odiare, e che non avendo bontà che fregi la memoria loro aspirano alla fama di Erostrato, insozzando altrui col proprio fango, ma correvano le coltella e i titoli infami e (se ne consolino i nostri) l'infame spionaggio: e il Caro, o i partigiani di lui, scesero alla codardia di rapportare il Castelvetro al Sant'Uffizio. Il Sant'Uffizio non era un ministero, con cui fare a credenza. Onde il Castelvetro per timore degli esorbitanti rigori dell'inquisizione, colpa o no che ne avesse, riparò a Basilea, a Lione, a Ginevra; poi con Giovanni Maria suo fratello si condusse a Chiavenna(18). Quivi si avvenne a Francesco Portocretese, amico suo d'antica data, già lettore di greco in Modena e in fama dei più dotto uomo d'allora, il quale già era con lui stato involto nell'affare dell'accademia, poi vissuto con Renata d'Urbino, e scoperto aderente a Calvino aveva dovuto dar un addio all'Italia. Il Castelvetro, per compiacere a molti giovani studiosi, teneva in Chiavenna ogni giorno una lezione sopra Omero ed una sopra la Rettorica ad Erennio, discretamente sofistico, gonfio di sé e sprezzator degli altri e sapendo non credere tutto bello, tutto vero ciò ch'è antico: fors'anco vi leggeva ai giovani quei commenti sul Petrarca che abbiamo a stampa. Secondo il merito lo stimò e lo protesse Rodolfo dei Salis di Solio, il quale a lui morto pose una lapide(19), che diceva come, fuggito dalla patria per iniquità d'uomini malvagi, dopo decenne esilio, finalmente su libero suolo, morto libero, libero riposava.
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