I quali, dando facile ascolto ai richiami del vescovo, fecero dal podestà di Morbegno vietare a frà Michele di procedere più oltre contro chi che fosse in Valtellina, se non previa licenza dei signori Reti. Dovette egli, allora tanto, piegare il capo; ma spinto poi dal suo zelo rinnovò i processi, onde a poco si tenne che il popolo non gli mettesse le mani alla vita. Divenuto poi pontefice, e saputo che Francesco Cellario già frate poi ministro protestante in Morbegno, non là solo, ma fino a Mantova(29) diffondeva le sue dottrine, lo fece cogliere di sorpresa, e tradurre al sant'uffizio di Roma, che lo cacciò dal mondo. Non era egli dunque il soggetto meglio opportuno ad acquetare i Grigioni, che studiavano anzi rendergli secondo avevano ricevuto.
Chi meglio d'ogni altro operò fu Carlo Borromeo, cardinale arcivescovo di Milano. Capace di riuscire a qualunque, arduo per la forza della volontà, una grande ricchezza, i vantaggi d'una condizione privilegiata, la gioventù, le aderenze, l'autorità della virtù e l'intima persuasione della causa che sosteneva, stabilì, finché l'anima gli bastasse, opporsi al lacrimabile incendio quand'era più vivo. Spinto per sua principal cura a fine il sinodo di Trento, tutto fu in rinnovellare la propria Chiesa: viaggiò, e veduto che l'ignoranza del clero era cagion prima dei progressi della Riforma, e che i più erano privi d'ogni sorta di lettere nelle terre soggette a signoria svizzera, stabilì in Milano il collegio elvetico, ove dovessero allevarsi per Dio operai apostolici e difensori della fede(30). Mandò missionari, e singolarmente oblati da lui istituiti, e Gesuiti, nati poc'anzi per opera d'Ignazio da Lojola; e tanto fece che i sette Cantoni cattolici giurarono la così detta Lega d'oro o Borromea e concessero che un nunzio papale rimanesse di piè fermo nella Svizzera.
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