Allora ecco entrare Giangiacomo, né in aspetto d'avvilito, ma sempre accinto della sua daga, e con un fiasco del più pretto vino, che cominciò a mescere in giro alla ragunata. Non faceva però egli atto né mostra di voler chiedere scusa e quando alcuno ne l'interrogò, diede un fischio, ed in men ch'io nol dica uscirono fuori quindici garzoni in tutto punto d'armi. Additando i quali al governatore, che pensate come si sentisse, "Ecco (esclamò Giangiacomo) e me e questi pronti pel governatore e per la repubblica fino all'ultimo sangue, solo che non ci si tocchi la religione nostra: ma se alcuno presumesse recarci in ciò al talento suo, non risparmieremo la vita a tutela della nostra santa fede". Tra pei generosi modi del giovinotto, tra per la paura dell'armi e il lenocinio del buon vino il governatore, che non doveva essere un Verre, abbracciò Giangiacomo ed il padre, e in lieti brindisi finita la festa, depose per allora ogni pretensione sulla chiesa.
Altri fatterelli succedevano ogni dì, che non sempre si risolvevano in un riso, e che rivelavano un'izza reciproca, per cui dominati e dominatori erano pronti a correre ai risentimenti. I Riformati ne davano ogni colpa a Nicolò Rusca, arciprete di Sondrio. Era questi nato in Bedano terra del luganese, da Giovanni Antonio e Daria Quadrio. Studiò prima sotto Domenico Tarillo curato di Comano, uomo di buone lettere ed investigatore delle antichità, e recitò in quel paese la prima volta dal pergamo, come sogliono i novelli cherici, un discorso altrui.
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