Frà Jacobone, de' Benedettini di Todi, valente nel diritto e nella poesia, godea della fama e de' piaceri del mondo, quando in una festa cadendo un palco, vi restò morta la dilettissima e bellissima moglie di lui: e sul corpo le si trovò un aspro cilicio, ch'ella sotto alle pompose vesti celava per ripararsi dai pericoli, cui la volontà del mondano marito l'esponeva. Colpito da quella morte e da quella penitenza, diedesi tutto a Dio, rinunziando ad ogni avere ed anche alla gloria col fingersi imbecille e attirarsi gli scherni plebei, comparendo seminudo, carpone, or colla cavezza a guisa di giumento, ora unto di mele e voltolato tra piume a guisa d'uccello. Metteasi come servigiale sulle piazze, ed uno avendogli dato de' polli da recar a casa sua, e' va, e li getta nel sepolcro di lui, come vera casa. Una volta compra interiora di capretto per farsene cibo, poi pentitosene, le appicca all'uscio della sua cella, e ne fiuta il fetore, e quando gli altri frati lo scoprono al puzzo, confessa la sua ghiottornia perchè lo riprovino145.
Passava dunque per pazzo; ma per esser accolto nei Francescani dimostrò non esserlo con un bel trattato sul disprezzo del mondo; e scrisse prose e versi di stile squisitamente plebeo, che sono de' primi dell'italiana favella, sebbene lo zelo e il mistico vedere lo facessero talvolta oscuro, talvolta irriverente. Tra le rozzezze sue è a cernire molto oro, se qui ne fosse il luogo.
Chi Gesù vuol amareCon noi venga a far festa,
Ed in quella forestaSì gli potrà parlare.
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