Eppure, dopo che Roma ebbe sofferto per aggiunta la fame e la peste; che Clemente VII durò lunga prigionia; che i Colonna e gli Orsini aizzavano quelle discordie in cui gli Italiani più inviperiscono quando sono percossi da peggiori flagelli; che amici e nemici s'impinguarono delle dovizie nostre; che si ripeteva esser terminato il potere pontifizio, si vide quel papa rifinito splendere di nuove glorie mondane. Perocchè Carlo V volle essere coronato da Clemente VII; e mentre la Germania erasi lusingata di mirare in quell'occasione il pontefice umiliato davanti a quell'imperatore, che i predecessori di esso aveano tante volte obbligato venire all'obbedienza, allora Carlo V professò dolersi delle atrocità commesse a Roma in suo nome; domandò l'assoluzione per chi v'aveva ecceduto; si obbligò di far restituire alla santa sede Modena e Reggio, tolte dal duca di Ferrara, Cervia e Ravenna occupate dai Veneziani; prender accordi con questi per le terre che aveano sottratte al regno di Napoli nella Puglia, e col papa per rintegrare gli Sforza nel ducato di Milano; pose se stesso e le sue armi a disposizione del papa, facendolo arbitro di ordinargli quando snudare e quando riporre la spada, e si fe da esso ornare cavaliere di San Pietro.
La solennità della coronazione fu delle più splendide che la storia ricordi. Quel cencio di porpora, traforato dalle scomuniche papali, e che i suoi antecessori eransi gittato da sè sulle spalle, ma che non rappresentava più il centro laicale della cristianità, consacrato dall'unzione sacerdotale, pensò Carlo V, col rimetterselo in dosso, attirare ancora un raggio del diritto divino sul successore di Carlo Magno.
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