Fra le condizioni poste alla liberazione del papa fu il convocare un Concilio generale.
Quel disordine degli spiriti, quel rinegare ogni autorità facea spavento a Carlo V, che al cardinale Campeggi ripeteva, il Concilio essere necessario non tanto per riformare gli ecclesiastici, quanto e molto più per i laici, ch'erano declinati dalla vera via; e se nol si facesse, pensava non debba, fra termine di dieci anni, esser uomo che possa sotto obbedienza reggere dieci case, non che Stati, regni ed imperi540.
Ma la fede cattolica trae sua forza dall'essere una, e conservarsi inalterabile. Parlare dunque di riformare la fede era un rinegarla, era non meno una contraddizione che un'empietà: un obbligare il mondo a credere alla Chiesa mentre ella stessa repudiava la propria infallibilità. Sonava dunque assurda la domanda che, in tal senso, ne faceano i Riformati.
Repugnava poi Clemente VII a raccorre il Concilio, principalmente per la controversia se questo sia o no soggetto al papa. Dagli ultimi convocati erasi visto che, adunato che fosse, il Concilio si pretendea superiore al papa; questo il negava; ne nascea scisma; eleggeasi un antipapa; disordine che riuscirebbe d'immensa ruina nelle agitazioni presenti541. Pure alfine Clemente aderì, e di propria mano scriveva a Carlo V:
«Carissime in Christo fili noster, salutem, et apostolicam benedictionem.
«Ho inteso per la man propria di Vostra Maestà, e per quello, che m'ha referito l'oratore Majo, e m'ha ancor avisato il Legato, che il parer di quella, e di quelli signori elettori, e principi che sentono bene nella fede christiana, che sia necessario, per estirpare li errori che sono in quella nazione, è assentire che si convochi il Concilio dimandato, ma con condizione, che gli eretici desistano da' loro errori, e si conformino a vivere cattolicamente nella fede e obbedienza della santa madre ecclesia.
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