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      Ottavio Farnese, per assicurarsi il dominio di Parma che la santa sede ridomandava, si era messo a protezione della Francia, la quale amò sempre mantener l'agitazione in Italia, appoggiando o le città che voleano farsi libere, o i principi che voleano ingrossare; e se non altro, vi cercava posizioni strategiche. Anche allora mandò guarnigione a Parma: di che corrucciato, il papa minacciava di togliere al re l'obbedienza de' sudditi; ma questo rispondeva come chi si sente maggiore di forze, facendo presentire che, come altra volta gli Imperiali, così adesso i Francesi potrebbero scendere a saccheggiare Roma; e spargeva nel suo paese l'idea d'un Concilio nazionale24.
      Nè venerato, nè amato passò Giulio25, e gli fu surrogato Marcello dei Cervini da Montepulciano, un de' prelati più pii e insieme più dotti (1555). Marcello II, com'egli si titolò, voltosi con ardore alla riforma, escluse il vasellame d'oro dalla tavola pontifizia, e lo mandò alla zecca pei bisogni pubblici; la guardia svizzera giudicava sconveniente al vicario di Cristo, che col segno della croce si difende meglio che coll'armi; tenne discosti i nipoti; per non lentare la disciplina degli ecclesiastici voleva a soli laici affidare la politica amministrazione. Ma queste ed altre rimasero nello stato di mere intenzioni, perchè dopo pochi giorni moriva.
      Fra i grandi e sant'uomini che illustravano la Chiesa d'allora, risplende Girolamo Seriprando, gentiluomo napoletano, poi generale degli Agostiniani; alto filosofo, perfetto teologo, istrutto nelle più varie discipline e in molte lingue, di costumi soavissimi, di vita esemplare: da Giulio III fatto arcivescovo di Salerno, poi da Pio IV cardinale e legato al Concilio di Trento, ove morì nel 1563. A Baccio Martelli vescovo di Fiesole scriveva egli come non avrebbe mai creduto che il Cervini potesse divenir papa, «perchè tutti i modi suoi e tutta quella strada per la quale camminava sì ostinatamente, gli pareva contraria a quella per la quale si suol giungere al papato.


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Gli eretici d'Italia
Volume Secondo
di Cesare Cantù
Utet
1865 pagine 728

   





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