Il papa non sapea indursi a crederlo traviato; e l'invitò a Roma, coi maggiori i riguardi, avendo divisato di ornarlo cardinale. Egli bilicossi lungamente tra rinegare le sue dottrine, o esporsi alla morte sostenendole; e il Giberti, santo vescovo di Verona ove allora egli si trovava, lo indusse andare a consultarne il cardinale Contarini a Bologna. Giunto colà, il trovò sì gravemente ammalato, che non potè averne se non queste parole: «Padre, voi vedete a che stato sono ridotto: pietà di me; pregate Dio per me e fate buon viaggio».
L'Ochino passò a Firenze a visitare Pietro Martire Vermiglio, e questi, che già era fisso nell'eresia, lo dissuase risolutamente dall'andare a Roma nè mettersi in mano del pontefice, bensì seguisse il consiglio del salvatore, «Se siete perseguitati in un paese fuggite in un altro». Mosse dunque a Siena a salutare i suoi; e vedendosi o credendosi in pericolo di venir preso, si ricondusse a Firenze, e di là scrisse alla marchesa di Pescara, palesandole l'ansie sue. «Con non piccolo fastidio di mente mi trovo qui fuor di Firenze, venuto con animo d'andar a Roma, dove sono chiamato, benchè da molti ne sia stato dissuaso, intendendo il modo col quale procedono; perchè non potrei se non negar Cristo, o esser crocifisso. Il primo non vorrei; il secondo sì, con la sua grazia, ma quando Lui vorrà. Andar io alla morte volontariamente non ho questo spirito. Dio quando vorrà mi saprà trovar per tutto. Cristo m'insegnò a fuggir più volte ed in Egitto ed alli Samaritani: e che andassi in altra città quando in una non ero ricevuto.
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