Quivi fu sostenuto non in carcere, ma nel convento di Santa Maria in Portico, con libertà d'aver seco il fratello Giammaria, e di praticare con chi volesse; e ne cominciò l'esame frà Tommaso da Vigevano, cancelliere dell'Inquisizione. I modi erano probabilmente quelli de' subalterni processanti: gli s'incutea spavento se non confessasse quella che voleasi verità; laonde preso da terrore panico, egli fuggì. Il cardinale Farnese al duca Alfonso suo nipote scriveva l'11 dicembre 1559: «Il Castelvetro essendosi costituito a' dì passati per purgare le imputazioni che gli erano date, ed avendo ottenuto per precipuo favore di poter difendere la causa sua fuor di prigione, se ne fuggì da Roma, subito che fu dato principio all'esamine suo. Il che sendo parso a questi reverendissimi segretarj della santa Inquisizione una tacita condannazione di se stesso, hanno proceduto contro di lui con quei termini che sono soliti contro di un convinto».
Pensate se il Caro e gli altri nemici ne profittarono per sollecitare la condanna! La quale era stata pubblicata dalla sacra Congregazione il 26 novembre 1560, dichiarando che, come eretico fuggitivo e impenitente, il Castelvetro incorreva in tutte le pene spirituali e temporali stabilite; chi potesse averlo l'arrestasse e inviasse prigioniero a Roma: ne fosse bruciata l'effigie.
Il Castelvetro ricoverossi a Chiavenna, terra de' Grigioni, e non pare abjurasse alla fede materna; anzi chiese perdono al Concilio di Trento; ma il papa esigeva si presentasse al sant'Uffizio di Roma.
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