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      APPENDICE I.
     
      La Fuga.
     
      Lucio. O m'inganno, od ho le traveggole, o mi vien incontro il mio Probo, se pur non è l'ombra sua. Poichè so che fu trattato pessimamente in questi anni e da questi Caifa. Ma comunque sia, giacchè ha la faccia di Probo, per Probo il saluterò. Addio, o Probo.
      Probo. Addio, caro Lucio. Ma dimmi, per Gesù; di che dubitavi al vedermi?
      L. Temevo non so che; mi parevi e non parevi.
      P. O che? Non ho la stessa cappa, la barba stessa, lo stesso volto?
      L. Stesso affatto; ma deh quanto mutato! uscito di carcere, come sei lurido e magro.
      P. Ma l'animo è uguale, neppur d'un briciolo cambiato, se non che la so più lunga.
      L. È dunque madre di prudenza la pazienza del soffrire.
      P. Tu stesso dal mio pericolo sarai scaltrito, se hai tempo d'udire come son riuscito a svignarmela.
      L. O dimmelo, per quanto ben mi vuoi. Tornato da di fuori, intesi che tu per mezzo d'incanti rompesti i ceppi e fuggisti, il che non ti so dire quanto piacere mi recasse.... L'animo mi presagisce qualcosa d'insolito e degna di Probo.
      P. Come fui preso il sai.
      L. Pur troppo il so; e che Satana, come altre volte, ora istiga i satelliti suoi contro i servi di Cristo per estinguer la verità.
      P. Così è; ma vincerà la verità. Dopo avermi menato per varie prigioni, non parendo mai abbastanza in sicuro, mi chiuser in una più difesa del Carcere Tulliano. Sta di mezzo fra il tinello e due altre camere, ove dormono in una il capo, nell'altra i guardiani. Qua a tarda notte per lunghi corridoj mi conducono, e mi serrano i piedi con ceppi di legno di grossezza enorme.


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Gli eretici d'Italia
Volume Secondo
di Cesare Cantù
Utet
1865 pagine 728

   





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