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      Abbiamo del secolo xi una lettera, in cui Enrico cherico a uno Stefano descrive il lavorare che si fa nella badia della Pomposa presso Ravenna, attorno agli studj, annoverando i libri che ne formano la biblioteca, e loda «la clemenza di Dio, che accresce la nostra sete di conoscere mediante la sapienza. Non ignoriamo (continua) potervi esser alcuni superstiziosi o malevoli, che vorranno appuntar questo venerabile abbate dell'aver messo libri pagani e favole di errore insieme colla verità divina e colle pagine de' libri santi. Noi vi risponderemo colle parole dell'apostolo, che ci ha vasi di creta come vasi d'oro; lo che fu istituito affine di allettare e occupare i varj gusti degli uomini».
      Coloro che disapprovano tali letture, il faceano o nel fervore della disputa, o per colpire l'abuso, come san Girolamo nel passo succitato: come sant'Agostino ove, nelle Confessioni, si pente che le lacrime di Didone lo facessero dimenticare di Cristo, o nelle Ritrattazioni d'aver troppo adoprato la parola Fortuna e rammentato le Muse. E che strani pericoli potesse recare lo studio de' classici lo mostra quel Vilgardo di Ravenna che già mentovammo, di cui uno scrittore del xi secolo racconta che con soverchia assiduità studiava la grammatica (cioè i classici) «come sempre ebber costume di fare gli Italiani, a preferenza del resto». E inorgoglitosi del suo sapere, una notte gli apparvero i demonj in forma de' poeti Virgilio, Orazio, Giovenale274, e con fallaci parole tolsero a ringraziarlo dello studio che in essi poneva, e gli promisero farlo partecipe della loro gloria.


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Gli eretici d'Italia
Volume Secondo
di Cesare Cantù
Utet
1865 pagine 728

   





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