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      Gli domandò che cosa avesse; rispose sentirsi molto male. Dopo pochi istanti, l’uffiziale cacciò il capo
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      fuori dello sportello, ed orribile fu lo spavento di noi tutti, allorché vedemmo l’infelice vomitare un torrente di sangue.
      In tale stato deplorabile, e col pericolo che da un istante all’altro potesse l’infermo rimaner esangue, ci convenne proseguire il cammino, finché un villaggio qualunque si fosse presentato, dove ci venisse fatto di prestargli l’aiuto che reclamava il suo stato. Inutili riuscirono i rimedi e le cure dell’arte; lo sventurato non vide il tramonto di quel dì.
      Questa catastrofe oppresse gli spiriti nostri. Continuammo il viaggio nella mestizia, ed io, benché tuttora fanciullina, piansi più volte per compassione.
      Giunti in Napoli, ritrovammo il capo di famiglia afflittissimo del torto ricevuto. Fummo consigliati dai più d’implorare la giustizia sovrana: e però tutti uniti ci portammo dal re. Ma Francesco I, che allor regnava, non meno odioso e spietato di suo padre, si mostrò inesorabile; per il che fummo ridotti ad una condizione non lontana dall’indigenza. Numerosa com’era la famiglia, il soldo della quarta classe poteva appena bastarle ai più urgenti bisogni del vivere. Tre anni interi passammo nella ristrettezza, soffrimmo tre lunghi anni di disagio, finché, riabilitato e ripristinato alla prima classe, venne mio padre destinato al comando della provincia di Reggio nella Calabria.
      Noleggiato pertanto un brigantino inglese, ed imbarcatavi la roba, attendevamo l’avviso della partenza.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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