Era il giorno 15 ottobre dell’anno 1827. Una pioggia dirotta, una fitta caligine oscuravano il dì: sembrava già notte prima dell’occaso. Determinato di partire, nonostante l’aspetto non propizio del tempo, il capitano ci manda a chiamare a bordo. I miei genitori fanno al messo delle proteste; ma l’ordine dell’inglese era positivo, né ammetteva commenti intorno alle condizioni dell’atmosfera. Fummo adunque obbligati di metterci sul mare, mentre l’acqua cadeva a ribocco, e i flutti d’ogni intorno infuriavano.
Parve strana a’ miei genitori l’ostinazione del capitano nel voler salpare con siffatta burrasca; ma questi fece lor vedere, segnato sopra una carta, il giro di diversi viaggi, che doveva impreteribilmente eseguire, per poi trovarsi il primo giorno dell’anno in Londra, dove una giovinetta, da lui teneramente amata, l’attendeva; e soggiunse che tutti gli elementi scatenati contro il brigantino non sarebbero bastati a sconcertare il suo itinerario: la sola morte l’avrebbe impedito d’impalmare la donna adorata la sera del capo
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d’anno. A questa spiegazione cavalleresca s’alternarono sui volto di mio padre il dispetto e l’ilarità: rise, perché gli sembrò strano che un anglo-sassone favellasse con tanto calore della sua passione: s’indispettì, vedendo quell’irragionevole marinaio intento, per puro capriccio, a sfidare gli elementi. Ma non v’era rimedio. Già i nostri bagagli stavano a bordo: volendo o non volendo, conveniva piegarsi all’arbitrio del capitano.
Io non contava ancora sette anni, ma da’ segni che mio padre e mia madre scambiavansi capiva trovarsi essi costernati dal temporale, ormai ingrossato di vento gagliardo, di grandine, di fulmini.
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Londra
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