Disgraziatamente (se l’amore può chiamarsi disgrazia), allo sviluppo del corpo concorse precoce pur quello del cuore. Sparì d’un tratto la serenità imperturbata della puerizia; non più il riconfortatore balsamo del sonno. Mi sentii un vuoto nell’animo, vuoto sommamente penoso, che bramai di riempire coll’ottenimento d’un oggetto vago, indistinto, non per anco da me stessa determinato. Bastava uno sguardo, un detto per conturbarmi la misura de’ palpiti, per farmi credere d’avere ispirato un sentimento simile a quello che aveva provato io stessa. Sopravveniva poscia il disinganno; quello sguardo era stato lanciato dal caso, quella parola era stata pronunziata per mera gentilezza, senza che il cuore vi avesse avuto parte alcuna. Rigorosa d’altronde era l’educazione che a noi dava la madre. Essa ci misurava l’ora che, per godere del pubblico passeggio, eraci lecito di tratte-
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nerci sul verone; la benché minima trasgressione poi era punita con severo castigo.
Ma chi non sa quanto ribelli a’ castighi siano le aspirazioni del cuore a quattordici anni?
Ben sa il ver chi l’impara,
Com’ho fatt’io con mio grave dolore!
Spirò appunto nel verone l’ultimo de’ miei giorni allegri.
Nella folla de’ vagheggini, che sfilavano al di sotto, distinsi un avvenente giovane, intento più d’ogni altro a tributarmi sguardi d’ammirazione. Fissarlo, arrossire, balzarmi il seno, fu un tempo solo. Più volte nello stesso giorno egli passò e ripassò. La soave languidezza delle sue pupille, il suo incedere pacato, la sua statura alta anzi che no, la sveltezza delle proporzioni mi convinsero essere quello, e non altro, l’uomo de’ miei sogni dorati, l’incarnazione delle mie aspirazioni.
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