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      Io vedeva colla massima indifferenza quell’uomo accanto alla sua sposa, la quale, o per effetto del caso, o per meditata malignità, usava al marito le
     
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      più spasimanti carezze, ogni qual volta i miei sguardi cadevano involontariamente su di loro.
      Mia madre aveva dato alla luce altre due femmine. La cura ch’io mi prendeva delle bambine mi serviva di distrazione gradevolissima.
      Una sera, mio padre ricevette la visita d’un nuovo impiegato civile, il quale menava seco un figlio che sembrava aver compito il quarto lustro appena. Io mi trovava nel salotto col resto della famiglia.
      Il giovine, che avea nome Domenico, fermò lo sguardo su di me, senza staccarlo per tutto il tempo che durò la visita.
      Benché non potesse dirsi bello di persona, pure i suoi occhi, mirabilmente conformati, sfavillavano un fascino ammaliatore. Era egli conscio di questo potere, egli che mi appuntava con siffatta tenacità?
      Questo solamente so, che sotto l’azione di quel fascino un disagio, un malessere, un turbamento singolare s’impadronirono di me con energia crescente. Cercava cambiar posizione, discorrere, divagarmi, ma indarno: quello sguardo inesorabile mi perseguitava in ogni luogo, m’attirava ineluttabilmente a sé, mi magnetizzava.
      Il giorno appresso lo rividi al passeggio: lo rividi la sera al teatro. D’allora in poi non uscii di casa senza incontrarlo; l’occhio mio lo discerneva nella folla con penetrazione maravigliosa, ed alla sua vista il seno mi balzava con violenza. Egli, da parte sua, sollecito di seguirmi ovunque andassi, non si lasciava sfuggire veruna opportunità per farmi consapevole del sentimento che io gli aveva ispirato.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





Domenico