Di farina vi fu penuria talvolta, ma la festa e la forca hanno divertito i Napoletani con esuberanza.
La “festa”, elemento primordiale e costitutivo del regime borbonico, dividevasi in tre specie; eravi la festa sacra, la festa di corte, la festa profana. Suddividevasi poi in cinque principali segreterie di stato: solennità ecclesiastiche, inseparabili da’ prodigi de’ santi, e da quelli dell’arte pirotecnica: ballo: teatro: accademia: carnovale. V’erano de’ giorni di gaia, in cui, se ballava il principe in palazzo, ogni suddito fedele, che non fosse reverendo o podagroso, doveva mettere le gambe in movimento. E negli ultimi giorni del carnovale, quando S. M., indossato il costume di maschera, e salita sull’indorato carro, a dritta e sinistra, lungo la via di Toledo, prodigava a bizzeffe, sotto la forma d’inzuccherati sassolini, le dovizie della regale sua munificenza, quale onore per ogni suddito devoto e leale di ricevere sulla faccia almeno un sol colpo di quella mitraglia, in commemorazione del bombardamento, che salvò Napoli, il trono, l’altare dalla peste infernale del liberalismo!
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Il bon ton nelle provincie consisteva nell’imitare servilmente la depravazione della metropoli.
La gioventù calabrese, briosa per natura, ma pur essa infetta della fatuità che inverniciava quel secolo di ferro, era nel carnevale del 1839 tutta preoccupata de’ diversi costumi da indossare nelle feste di ballo.
Domenico non tralasciava di venire ogni sera in mia casa, ove il ballo e la musica non mancavano.
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